ASIAN STUDIES GROUP

venerdì 19 ottobre 2007

Political revolution in Italy. PD: a new opportunity for foreigners

On the following you can read Marco Wong's contribution published on Corriere Asia before DP primary elections on last 14th October. Wong explained to us how DP allowed to foreigners to take part in a new prospective on italian political and instituional scene. He pointed out on the focus of attention the start of a new work and collaboration's group called Origine X, which foreigners, almost chinese, taked part to get a new opportunity to esxpress their necessities.
So you can easily understand by following interview the importance of this Group within Gawronsky political list in the DP.
Wong thinks that Origine X and Gawronsky's contribution rapresent a new atmposhere on social and political background in Italy.

Verso le primarie: al Partito Democratico una lista che da voce agli stranieri


OrigineX, questo il nome di un vero e proprio "movimento d'opinione" dalla sensibilità multietnica, creato con la funzionalità politica d'appoggio alla candidatura di Piergiorgio Gawronski alle primarie del nascente Partito Democratico.
La X che ritroviamo provocatoriamente nel nome di questo gruppo richiama, secondo i promotori, il carattere d'anonimato a cui spesso la comunità di extracomunitari è soggetta. Un silenzio tra l'altro riconducibile anche alla dimensione di partecipazione politica oltre che sociale. La finalità del movimento, così come la partecipazione diretta nella lista Gawronsky mira, difatti, nel rispondere ad un vuoto di dialogo costruttivo fra la comunità di cittadini extracomunitari, regolarmente residenti in Italia, e la società italiana, attraverso un sistema non solo dal valore culturale ma soprattutto politico e istituzionale.

Abbiamo incontrato Marco Wong, uno fra i coordinatori di OrigineX e abbiamo cercato di capire con lui il perché di una lista formata tutta da cittadini stranieri in appoggio al nascente Partito Democratico.

Paolo Cacciato: Sig. Wong, perchè creare una lista di stranieri per le elezioni del partito democratico?

Marco Wong: L'idea è nata dalla constatazione che a tali elezioni possono votare e candidarsi anche i cittadini stranieri. Ho pensato che questa fosse una buona occasione per mostrare che le comunità straniere sono interessate a partecipare alla vita democratica italiana, e per creare comunque interesse alle tematiche che riguardano gli immigrati in Italia, che oramai raggiungono circa tre milioni di persone ma che non hanno nessun tipo di effettiva rappresentanza nella nostra società.

P.C.: Eppure da quello che risulta in questa lista rientrano solo nomi di immigrati cinesi. Come mai?

M.W.: Non è stato assolutamente intenzionale. Ho provato a chiedere a rappresentanti di altre comunità, ma i tempi tecnici cortissimi non mi hanno consentito di trovare altri immigrati stranieri che volessero unirsi a noi. E' indubbio però che lo spirito con cui origineX e la lista medesima sono nate risponde appieno ad un bisogno di riconoscimento e di pubblica partecipazione condivisibile nell'esperienza non solo delle comunità cinese, ma propria di qualsivoglia realtà di immigrati impiegati lavorativamente e anche socialmente a pieno regime nel nostro Paese.

P.C.: Perché l'appoggio politico alla figura di Piergiorgio Gawronski alle primarie del Partito Democratico del prossimo 14 ottobre?

M.W.: Per diverse ragioni, innanzitutto per la sua disponibilità a recepire nel suo programma le nostre istanze, e soprattutto per una sintonia che si è venuta a creare, forse dovuta al fatto che anche lui è di origini straniere, cosa che rende tutta l'iniziativa ancor più simbolica. Abbiamo tenuto conto, poi, del fatto che Gawronski ha sempre operato professionalmente da outsider nel panorama politico italiano e che, ultimamente, come noi ha sentito la necessità di mettersi in gioco. Uno stimolo importante, perciò, che ci ha aiutati a riflettere sulla serietà e validità del suo programma.

P.C.: Nel vostro collegio ci sono dei big della politica del calibro di Rutelli e Santagata. Il vostro non è un tentativo un po' velleitario?

M.W.: Lo sarebbe se il nostro obiettivo fosse la conquista di un certo numero di delegati. La nostra iniziativa nasce in realtà dalla voglia di far partecipare persone che altrimenti non avrebbero mai la possibilità di esprimere la loro opinione in una votazione, e dall'esigenza di far conoscere le tematiche dell'immigrazione. Da questo punto di vista, direi che abbiamo già raggiunto molto di quello che ci prefiggevamo inizialmente.

P.C: Quali difficoltà avete incontrato in un'avanzata per certi aspetti rivoluzionaria sulla scena politica italiana?

M.W.: Di tutto, innanzitutto a trovare persone disposte a candidarsi. I cinesi in Italia sono per lo più piccoli commercianti, ed hanno paura ad esporsi troppo. Inoltre come outsider non abbiamo alle spalle la macchina organizzativa dei partiti e nemmeno la loro esperienza, e quindi abbiamo fatto moltissimi errori dovuti all'inesperienza.

P.C.: Entrando poi nello specifico sull'attività della vostra lista, quali sono i vostri punti programmatici?

M.W.: Per prima cosa, la revisione della legge sulla cittadinanza. L'attuale legge prevede infatti la possibilità di richiesta del riconoscimento di cittadinanza dopo dieci anni in Italia, la nuova proposta di legge che appoggiamo, prevede di portare tale periodo a cinque anni con un esame di conoscenza della lingua italiana. Ecco che proponiamo, inoltre, la definizione di criteri oggettivi, definiti a livello nazionale ed esami linguistici gestiti da enti terzi assieme a percorsi di conoscenza della lingua e della cultura italiana ed educazione civile. Segue poi la revisione dello ius sanguinis, la esemplificazione delle procedure per l'ottenimento del permesso di soggiorno, ma anche il rafforzamento dei programmi per la trasferibilità dei contributi versati in Italia a fondi pensionistici in altri paesi. A tal proposito ci terrei a sottolineare come molti immigrati, dopo un periodo lavorativo in Italia, ambiscano di fatto a ritornare nel proprio paese natio; è per questo che proponiamo la possibilità di riscattare i contributi italiani maturati o di trasferirli sui fondi pensione del proprio paese d'origine. Misura che riteniamo possa rappresentare non solo un riconoscimento d'equità sociale, ma anche un pragmatico stimolo ad uscire dalla spirale del lavoro nero, oltre che un incentivo a tornare nel proprio paese di origine senza aggravi per il sistema sociale italiano.

P.C.: Riguardo invece al dialogo culturale fra Italia ed immigrati?

M.W.: Abbiamo inserito nel programma il fermo interesse al rafforzamento di progetti di diffusione della cultura italiana all'estero, così come la valorizzazione della ricchezza potenziale che rappresentano gli immigrati in Italia nei confronti dei loro paesi d'origine,in una sorta di circolo virtuoso e sinergico fra lavoratori immigrati, co-protagonisti insieme ai cittadini italiani, e Paesi di provenienza. Lo scopo è quello di rendere la comunità internazionale e i Paesi d'origine consapevoli del movimento migratorio e attuare un'opera di coordinamento nello sviluppo interno di ogni singolo Paese.

P.C.: Che tipo di campagna elettorale avete fatto?

M.W.: Basata sul passaparola, molto elementare perchè il nostro target non ha mai avuto il diritto di voto e quindi facciamo molta informazione di base. Ma dal momento che uno dei nostri obiettivi era per l'appunto fare informazione direi che va bene così.

You can read entire article on the following link
http://www.corriereasia.com/_var/news/DWIHGYZ-EMCXGTZ-ZHP.shtml

Paolo Cacciato
CORRIERE ASIA

sabato 6 ottobre 2007

Italian Business must understand Chinese culture and management to improve itself


Here my last interview with Dr. Giorgio Secchi, a business man and consultant on economic and trade affairs in China. Secchi is also co-author of a recent specialist book about human resources and culture's differences in China. In particular, in his publication, Secchi helps us to think what do intercultural elements matter about business projects. He also presents to us his personal experience as Luxlife Company's president and gives several advices to approach in the better way chinese trade.

Guida al business. Un consiglio per il successo in Cina: umiltà e buonsenso con la controparte cinese.


Paolo Cacciato: Dott. Secchi, ho trovato particolarmente azzeccato il filo conduttore che stimola alla riflessione della presente pubblicazione di cui lei è co-autore. La Cina fra minaccia e opportunità è un'immagine che sicuramente accompagna l'ideale comune nel tentativo di relazione commerciale o di business in genere sul mercato cinese. Iniziando subito col presentare questo volume, può cercare di tracciare brevemente il carattere pragmatico e funzionale che la pubblicazione stessa intende rappresentare?

Giorgio Secchi: Diciamo che il volume non vuole essere una trattazione sui rapporti commerciali Italia / Cina, per cui non vi è un riferimento alla Cina come minaccia o come opportunità per le nostre imprese come normalmente accade nei tanti convegni e nelle trattazioni a cui assistiamo in questi ultimi anni.
Piuttosto l'idea è di fornire strumenti manageriali utili a chi vuole andare in Cina o che ha già una presenza nel paese; in quest'ottica il volume da una chiave di lettura diversa dalle solite: la cultura (in senso ampio) è un asset, se questo asset viene gestito in modo efficace esso diventa un'opportunità, se viceversa viene ignorato rischia di diventare una minaccia al corretto funzionamento del proprio business. Quindi si, la Cina è una minaccia per chi non riesce a capirne la complessità, ma è anche un opportunità per chi ottimizza la differenze culturali e anzi le rende un punto di forza per il proprio lavoro. Questo almeno è il messaggio che ci siamo ripromessi di proporre con il nostro libro. Il nostro lavoro è quindi volto a proporre una metodologia di analisi sul perché innanzi tutto vi siano determinate differenze, su come queste influenzino il comportamento "economico" ed infine si cerca di tracciare dei modelli di stili di gestione che tengano appunto conto di queste dinamiche culturali.

P.C.: Quanto, poi, parlare oggi di Cina come "minaccia" non fa altro che farci ripiombare nel luogo comune più consolidato degli ultimi anni e quanto poi il termine di "opportunità" può ormai andare stretto per un mercato in livello di saturazione su alcuni fronti e di modifica strutturale su altri, come quello cinese?

G.S.: Sono d'accordo. Oggi la Cina non è una minaccia visto che si muove in mercati in cui è presente da diversi anni e segue un modello di crescita ormai piuttosto prevedibile. Diciamo che è piuttosto minaccia normalmente pre-annunciata. Prova ne è il fatto che anche nei mercati più colpiti dal fenomeno cinese (vedi il tessile) c'è chi a suo tempo ha fatto i compiti a casa e si è potuto ritagliare una nicchia di mercato in termini di qualità, valore aggiunto, customizzazione, servizio al cliente, etc. dimostrando che la concorrenza alla Cina si può fare con successo; basta capire in che ambito farlo (in questo caso tecnologia e innovazione e non certo sui prezzi).
Stesso discorso per "l'opportunità". Se lei oggi va a Shanghai, a Pechino, a Canton trova una situazione dove è presente tutto e il contrario di tutto: dai servizi ai prodotti, alle mode, alla nightlife. Questo è emblematico di un paese dove il tempo delle grandi opportunità è ormai passato. I mercati si sono in buona parte strutturati e hanno aumentato la loro complessità, i players sono preparati e ben consci dei propri ruoli e delle proprie potenzialità, etc. Insomma, chi doveva entrare ormai lo ha già fatto da tempo.
Ecco perché noi ci siamo sentiti di dare una chiave di lettura al fenomeno cinese diversa. Abbiamo cercato di spiegare come ottimizzare un aspetto chiave del business, quello delle risorse umane, piuttosto che proporre una guida sul cosa fare e sul come fare business in Cina.

P.C.: Sono perfettamente convinto, tornando al titolo della pubblicazione medesima, che la diversità culturale, o meglio, la conoscenza della portata "alteritaria" del nostro interlocutore, sia esso commerciale o semplicemente relazionale, possa essere considerata uno strumento di grande efficacia nel business, non trova?

G.S.: Sicuramente mettere a proprio agio la persona con cui si sta interagendo è un principio base di ogni rapporto sociale, lo è poi ancora di più in situazioni in cui la differenza tra culture, abitudini, retaggio culturale e tradizioni porta spesso e volentieri a situazioni di incomprensione e quasi di disagio; cosa che spesso vediamo accadere in Cina tra personale locale e personale estero.
Credo che sia molto importante capire ad esempio che ci sta di fronte non sta necessariamente cercando di "fregarci" o di prendere tempo ma che forse più semplicemente non riesce a relazionarsi con noi perché stiamo comunicando con due lingue diverse (e non solo in senso stretto...) e quindi non capisce cosa deve fare o cosa ci si aspetta da lui. Se non si parte da questa idea che è molto umile ma anche molto semplice i rapporti tra personale cinese e personale straniero non saranno mai altro che muro contro muro. Se viceversa le persone che noi scegliamo per lavorare in Cina capiscono questa idea e se la fanno propria allora è facile aspettarsi una maggiore produttività e un maggiore attaccamento all'azienda da parte del personale cinese (che ad oggi in molte aziende non si fidelizza appunto perché non riesce a riconoscersi all'interno del sistema sociale "azienda").

P.C.: Crede a questo proposito, che l'imprenditoria italiana si sia servita poco, fino ad oggi di questa consapevolezza? Parlando da mediatore linguistico e culturale riconosco spesso una certa diffidenza da parte di uomini d'affari nell'affidarsi a chi ha fatto della "diversità culturale" il proprio terreno di specializzazione accademica e professionale e magari non dimostra immediata conoscenza delle dinamiche di business, d'investimento e di marketing. Cosa ne pensa?

G.S.: Io credo che l'imprenditoria Italiana abbia purtroppo sbagliato le tempistiche nel servirsi di figure quali il "mediatore culturale". Nei momenti in cui la Cina era agli albori della sua internazionalizzazione si è spesso optato per tecnici piuttosto che mediatori, e la scelta non ha premiato visto che la prima necessita allora era forse più costruire rapporti di relazione (diciamo politica) piuttosto che implementare progetti in loco. In tempi più recenti molte aziende si sono affidate a sinologi piuttosto che a manager temendo la grande diversità del paese e il problema della lingua. Se è vero che la complessità dell'ambiente lavorativo cinese negli ultimi anni è molto aumentata si capisce come non sia facile per una persona con preparazione non tecnica andare a fare lavori a volte estremamente tecnici e delicati.
D'altro canto il problema è anche più a monte: la formazione in Italia. Oggi dalle nostre università arrivano studenti molto preparati su cultura e lingua cinese, ma non su aspetti e problematiche del business; è comprensibile che tali figure facciano poi molta fatica una volta posizionati in Cina con responsabilità da manager o da tecnici. Altri paesi hanno invece puntato sul formare risorse in primis abili tecnicamente e preparate (magari successivamente) alla lingua e alla cultura cinese (cosa che sta facendo anche la stessa Cina fornendo corsi full immersion di lingua e cultura cinese).
Se facciamo fare al mediatore culturale il lavoro del commercialista, e al commercialista quello del venditore porta a porta nel Guangdong, non c'è da stupirsi che i risultati non siano dei migliori; ma la colpa non è certo del mediatore o del commercialista, è di chi non riesce a formarli in modo corretto per quello che il mercato richiede e di chi non riesce a collocarli nelle giuste posizioni perché ha una visione paese che non rispecchia le esigenze attuali.

P.C.: Riferendoci invece alla sua esperienza personale di uomo d'affari ma anche e soprattutto di "tecnico" in progetti di distribuzione, sourcing e penetrazione commerciale per conto di diverse aziende, quali elementi deboli da parte dell'imprenditoria nostrana ha notato e di riflesso quali considerazioni propositive l'hanno stimolata nel dar vita e a sostenere poi Luxlife, la sua azienda con sede a Shanghai?

G.S.: Penso che in primis ci sia troppo spesso da parte dei nostri imprenditori la tendenza a vedere l'opportunità (per rifarci al discorso di prima) sottovalutando le problematicità relative al paese. Come si diceva prima la Cina di oggi è un paese dove manca davvero poco, e quello che manca spesso manca per dei motivi (ad esempio sono prodotti o servizi che non piacciono, non interessano, o ancora vanno contro le logiche culturali cinesi). Per cui l'incipit di partire con un qualcosa che sicuramente deve funzionare perché "manca" è già (soprattutto se si arriva alla conclusione dopo pochi giorni di visita) quanto meno opinabile. Spesso poi le aziende nostrane invece di avvalersi di professionisti riconosciuti e con esperienza tendono ad affidarsi a figure poco preparare o addirittura a fare tutto da sole; se è vero che la Cina è un mercato complesso, errori derivanti da leggerezze iniziali si pagano cari prima o poi. Altro vizio tipico dei nostri imprenditori è poi quello di partire con un idea (valida o meno che sia) e poi nel tragitto lasciarsi entusiasmare da mille altre cose. Una start up in Cina richiede tempo e risorse più che in negli altri paesi, se non ci si focalizza al 100% il rischio di fallire aumenta esponenzialmente.
A fronte di queste riflessioni abbiamo cercato di impostare la nostra esperienza con Luxlife appunto limitando al minimo questo genere di rischi: ci siamo concentrati su un'idea che poteva essere interessante (importare mobili e design italiano in Cina), ci siamo presi i nostri tempi per analizzare se la cosa poteva stare in piedi oppure no, abbiamo fatto le dovute analisi in merito e alla fine siamo partiti con l'ufficio a Shanghai. Il tutto cercando sempre di rimanere non solo focalizzati sul mercato di riferimento ma sul particolare taglio di mercato che avevamo deciso di dare alla nostra azienda.

P.C.: Luxlife si occupa di lusso. Ha notato un incremento nella risposta del mercato cinese a questo settore? Rispetto ad altri marchi internazionali, il marchio italiano difende bene il proprio prestigio e riesce nel percorso di radicamento sul mercato o pecca in alcune dinamiche rispetto alla concorrenza? Penso ad esempio ai marchi del lusso francese per esempio.

G.S.: Sicuramente la Cina rappresenta oggi un mercato interessantissimo per le griffe del lusso, i numeri e le statistiche parlano da soli.
Quello che secondo me è interessante notare è che non tutto il lusso è visto allo stesso modo e ha quindi le stesse chances di successo. Ciò che è esibibile e riconoscibile sicuramente ha vita molto facile in Cina (visto che uno dei driver principali di acquisto del lusso è l'impossessarsi di uno status simbol da esibire piuttosto che,come succede in altri paesi, un meccanismo emozionale) cosa che quindi non sempre è vera per prodotti non facilmente riconoscibili (il mobile ne è un esempio) o di settori che non hanno avuto il giusto background storico (yachts) o ancora di quelli regolamentati (jet privati). Questo mi porta a pensare che senza un adeguato studio di prodotto e di mercato e su come veicolare il messaggio che si vuol dare al consumatore, anche il lusso in Cina non sia un settore di "opportunità" poi così scontato.
Sul discorso Italia la mia impressione è il nostro paese è senza dubbio simbolo per eccellenza di qualità e lusso; questo è sicuramente un grande aiuto per chi esporta ma certo non basta. Il consumatore cinese è sempre più attento ai prodotti e ai marchi e ha accesso a piazze come Hong Kong, Singapore, Milano stessa dove può poi andare a verificare se quello che viene proposto come lusso in effetti lo è o se come accade spesso è un prodotto qualunque spacciato come lusso per il mercato cinese. Ecco, in questo caso l'essere semplicemente italiani serve a ben poco (soprattutto nel lungo periodo).

The Interview continues on Corriere Asia, you can read entire article on the following link

http://www.corriereasia.com/_var/news/DWHIFFO-EMCAJHP-BFNN.shtml

Paolo Cacciato
CORRIERE ASIA